«Donne, vita, libertà». La rivoluzione delle donne iraniane e i doveri dell’Occidente

di Elena Tebano

Lo slogan delle proteste in Iran scatenate dall’uccisione di Mahsa Amini, la 22enne curda morta a Teheran dopo essere stata arrestata dalla polizia religiosa perché non portava il velo correttamente, è «Donne, vita, libertà». È stato coniato dal movimento di liberazione delle donne curde, ed è — come spiega la studiosa e accademica iraniana in esilio Fatemeh Shams in un’intervista al New Yorker — «il risultato di decenni di attività e sforzi di base delle donne curde in una delle regioni economicamente più svantaggiate dell’Iran, le province curde». Ora viene gridato dalle (e dai) manifestanti di un’ondata di proteste che da 24 giorni non accenna a fermarsi. E che — come afferma la scrittrice iraniano-americana Roya Hakakian sull’Atlantic — potrebbe diventare una vera e propria «rivoluzione». Il primo rivolgimento politico al mondo causato dalla rivendicazioni femministe. «La rivoluzione (islamica, ndr) in Iran ha 43 anni. L’8 marzo 1979, appena un mese dopo il successo della Rivoluzione iraniana, le donne scesero in piazza per protestare contro l’hijab e il ripristino del codice di abbigliamento obbligatorio da parte degli ayatollah. Avevo 13 anni. Ma questo scontro tra le donne del Paese e il regime è il più antico e duraturo in Iran. E credo che le donne stiano vincendo» spiega Hakakian.

«Quello che è successo a Mahsa Amini è successo a ognuna di noi. Siamo state tutte fermate (dalla polizia religiosa iraniana, ndr) e alcune di noi sono state detenute. Io sono stata fermata moltissime volte. Quando ripensi a tutte le conversazioni che hai avuto con le persone che ti hanno fermato, ti rendi conto che un leggero cambiamento di tono o qualcosa di molto, molto piccolo avrebbe potuto far sì che la persona che ti aveva fermato ti desse un colpo in testa. Tutte noi, le donne che hanno vissuto sotto questo regime, sappiamo cosa significa e che potremmo essere vittime come Mahsa Amini» aggiunge Hakakian.

«Il cuore di questo movimento rivoluzionario, è l’autonomia corporea delle donne e il recupero dell’autonomia corporea delle donne» concorda la professoressa Fatemeh Shams. «Penso che questo movimento sia la continuazione e l’accumulo di tutte le lamentele e le sofferenze sociopolitiche, di genere, etniche e religiose degli ultimi quarantaquattro anni». In questo senso riprende e prosegue il Movimento verde del 2009, ma lo carica con il peso delle sanzioni e di due anni di pandemia. «Quello che vediamo oggi, in questo momento, è che tutto sta arrivando al culmine. Quattro decenni di lamentele economiche, il trattamento delle minoranze etniche e religiose, la discriminazione delle donne, e poi il corpo di questa donna curda di ventidue anni diventa improvvisamente il simbolo di tutti questi livelli» dice Shams.

Le proteste sono dilagate anche nelle università e preoccupano a tal punto il governo da aver spinto il capo della magistratura dell’Iran, Gholam Hossein Mohseni-Ejei (uno degli esponenti più duri del regime teocratico degli ayatollah) a un’inaspettata apertura ai manifestanti. «A tutti i gruppi e le persone che hanno lamentele o critiche, annuncio che sono pronto ad ascoltare le loro obiezioni attraverso il dialogo, e se c’è qualche errore o debolezza da parte nostra, possiamo correggerli», ha dichiarato Mohseni-Ejei secondo quanto riportano le agenzie ufficiali iraniane.

Chi non sta prendendo sufficientemente sul serio le rivolte delle donne, invece, sono i governi occidentali. Il New York Times, in un editoriale, ha chiesto al presidente Joe Biden e al Congresso americano un intervento più netto a sostegno delle e dei rivoltosi. Che comprenda anche una revisione delle sanzioni: «Gli Stati Uniti devono continuare a impegnarsi per impedire all’Iran di ottenere armi nucleari, e questo giornale sostiene il proseguimento degli sforzi diplomatici che potrebbero limitare il programma di armi nucleari dell’Iran e aprire la porta a futuri accordi. Ma alcune delle attuali sanzioni si sono spinte troppo in là e hanno colpito soprattutto gli stessi attivisti che gli Stati Uniti vorrebbero aiutare. In effetti, il regime ha sfruttato l’isolamento economico dell’Iran per rafforzare ulteriormente il proprio potere. Gli Stati Uniti hanno quindi un grande interesse ad aiutare le e gli iraniani ad avere una vita migliore, idealmente senza sanzioni, polizia morale o armi nucleari — scrive il Nyt —. Gli Stati Uniti hanno anche la possibilità di contribuire a migliorare l’accesso a uno dei principali strumenti di resistenza popolare: le comunicazioni.

I dissidenti iraniani lamentano da tempo che le sanzioni sulla tecnologia ostacolano la loro capacità di comunicare con il mondo esterno e tra di loro. Subito dopo che il governo iraniano ha tagliato l’accesso a Internet alla maggior parte dei suoi circa 85 milioni di cittadini, l’amministrazione Biden ha fatto ciò che avrebbe dovuto fare molto prima, rilasciando una licenza generale che permette alle aziende tecnologiche di fornire mezzi tecnici agli iraniani per eludere le restrizioni governative».

Anche la ministra degli Esteri tedesca Annalena Baerbock, che aveva promesso di portare avanti «una politica estera femminista», è stata accusata di non fare abbastanza per le iraniane. «Di fronte alle donne coraggiose dell’Iran, Baerbock sembra stranamente monosillabica. La verve con cui sostiene una politica estera femminista sembra fermarsi ai mullah. Tuttavia, il movimento di protesta guidato dalle donne deve essere sostenuto per non fallire» ha scritto il settimanale Spiegel sabato. Critiche che sembrano aver colpito nel segno: subito dopo Baerbock ha promesso nuove sanzioni contro il regime: «Ci assicureremo che l’Ue imponga il divieto di ingresso ai responsabili di questa brutale repressione e congeli i loro beni nell’Ue», ha detto domenica in un’intervista alla Bild am Sontag.

L’Occidente vent’anni fa ha usato i diritti delle donne come pretesto per invadere l’Afghanistan. Non si tratta di arrivare a tanto, anche perché — come ha dimostrato proprio l’Afghanistan — i conflitti armati fanno progredire ben poco le condizioni delle donne, che per migliorare richiedono profondi cambiamenti sociali. Si tratta piuttosto di aiutare le donne gli uomini che stanno già portando avanti quei cambiamenti sociali (anche accogliendogli in Europa e negli Stati Uniti, se necessario) con finanziamenti e infrastrutture. Le donne iraniane, alla fine, stanno combattendo per la democrazia e i diritti umani.

Questo articolo è tratto dalla newsletter “Il Punto – Rassegna stampa” del Corriere della Sera dell’11 ottobre 2022

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