Autonomia differenziata, audizione alla Camera MEMORIA UIL SCUOLA RUA

Il 28 marzo si è tenuta alla Camera dei Deputati un’audizione sul disegno di legge , approvato dal Senato, recante “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario”. Vi riportiamo l’intervento di Roberto Garofani della Segreteria Nazionale Uil Scuola Rua.

Audizione
Commissione Affari Costituzionali
Camera dei deputati

La considerazione da cui partire al fine di poter ragionare serenamente e con il dovuto distacco su un tema così delicato quale quello dell’autonomia differenziata o regionalizzazione che dir si voglia, è la seguente: l’Italia, date le attuali condizioni economiche e sociali con gli squilibri macroscopici tra regione e regione, può permettersi di passare ad un regionalismo competitivo sostituendo quello solidale?

Senza proclami ideologici e alcun preconcetto a discutere di un tema così rilevante per la nostra società, è inevitabile però partire dalla risposta al quesito posto e la risposta, di fronte a tutti gli indicatori è inequivocabile: non ci sono le condizioni.

Sanità, servizi sociali, trasporti, infrastrutture sono alcuni dei settori nei quali il gap tra regioni è talmente ampio che ha già prodotto conseguenze in termini di disuguaglianze civili e di costi sociali.

Ci limiteremo alle considerazioni che attengono al nostro ruolo quale quello di attenti conoscitori della scuola, fuori da logiche conservative e con uno spirito per cui guardiamo ad essa in termini di progresso e di attenzione alle novità.

 

 

 

Ci sono due assunti di partenza dai quali pensiamo non si possa prescindere:

  1. la scuola riteniamo che sia solo quella nazionale. Diversamente si decreterebbe, non solo la frammentazione e la diseguaglianza nell’accesso all’istruzione, ma la fine del sistema scolastico nazionale.
  2. la scuola dovrebbe essere lontana da logiche divisive.

La scuola, inoltre, non è un servizio ma una funzione dello Stato, se dovesse essere messa sullo stesso piano di un servizio viene meno in modo grave il valore costituzionale dell’istruzione. Il diritto all’istruzione è un diritto fondamentale. Non si tratta di un servizio amministrativo da decentrare, ma di una funzione che deve essere esercitata nei tempi, nei modi e nelle forme previste dalla Costituzione (Parte I, Titolo II, art 33 e 34 )  che le assegnano un ruolo di indipendenza e autonomia, che il singolo Consiglio Regionale non può garantire. Non può essere pensata la spesa per l’istruzione (peraltro molto inferiore alla media UE) come una quota da gestire in termini di condizionamento localistico.

Inoltre al di là della questione Nord/Sud non dobbiamo perdere mai di vista un altro assunto:  la scuola è il luogo principale per la costruzione dell’eguaglianza sociale. Il mondo della conoscenza deve unire l’Italia e non dividerla. Il tutto per un Paese più unito, più eguale, più giusto, più coeso.

lo Stato deve mantenere un ruolo centrale nell’istruzione, attraverso un modello che sia garanzia di laicità, gratuità e pluralismo che contribuisca a mantenere alto il livello qualitativo dell’istruzione, che rappresenta uno dei principali fattori di crescita economica e sociale di qualsiasi paese.

Andrebbero estesi i LEP (livelli essenziali delle prestazioni) al sistema istruzione nel suo insieme. La legge di bilancio del 2021 ha fatto passo in avanti, rispondendo alle esigenze costituzionali stabilite all’art. 117 della nostra Costituzione, verso l’attuazione dei LEP per i servizi educativi per l’infanzia. Ma è evidente che non basta.

I LEP riguardano i servizi e le prestazioni che lo Stato deve garantire uniformemente su tutto il territorio nazionale, per consentire il pieno rispetto dei diritti sociali e civili di tutti i cittadini italiani. Ciò comporta la necessità di definire uno standard di servizi e prestazioni adeguato alle esigenze dei cittadini, a prescindere dal loro luogo di residenza. Lo Stato è, quindi, tenuto ad erogare agli Enti Locali le risorse necessarie per poterli garantire, prevedendo di destinare le risorse agli Enti che non ne dispongono autonomamente e che necessitano di contributi più sostanziosi. Fino ad oggi questo principio non ha trovato piena applicazione, poiché si è tenuto molto più conto del metodo di calcolo della cosiddetta “spesa storica”, in base alla quale l’attribuzione delle risorse veniva effettuata sulla base di quanto speso in passato da uno stesso ente per uno stesso servizio. In pratica, riceve di più chi garantisce determinati servizi, a svantaggio di chi non è stato mai in grado di erogarli. È questa una delle ragioni per cui i divari tra i territori sono andati ampliandosi sempre di più, tradendo l’intento contenuto nella Costituzione e impedendo a milioni di italiani di esercitare appieno i propri diritti di cittadinanza.

Inoltre con il disegno di legge in discussione si determinerebbero delle sostanziali differenze tra regione e regione su:  reclutamento, concorsi (con possibili nuovi vincoli per i neo-assunti), formazione iniziale e in itinere, stipendi, mobilità dei docenti, Ata e Dirigenti scolastici.

Il nuovo assetto potrebbe andare a coinvolgere le valutazioni degli studenti: questo è un tema assai delicato perché se viene meno l’unitarietà dell’istruzione pubblica c’è il rischio, anzi la quasi certezza che gli alunni appartenenti ai ceti meno abbienti avrebbero sempre meno chance di affrancarsi dal loro ambiente di provenienza. A cascata potrebbe quindi allargarsi la forbice territoriale sulle competenze degli studenti, mettendo, con molta probabilità, in crisi definitivamente la tenuta unitaria del sistema nazionale d’istruzione.

Il rischi di stipendi differenziati: i dipendenti in servizio nelle Regioni più ricche potrebbero trovarsi garantite buste paga più alte. Si allargherebbe, di fatto, il modello già esistente in alcuni territori, come l’Alto Adige, dove i compensi mensili sono superiori al resto d’Italia.

Una spesa sociale che offre 55 euro l’anno a chi nasce a Reggio Calabria e 177 a chi nasce a Verona non può essere giudicata un “vecchio problema” à cui abituarci: è uno sfregio alla democrazia e ai principi costituzionali che celebriamo in ogni pubblico discorso. Ci sono dati, numeri, percentuali, dietro cui è in gioco la vita quotidiana di quasi 20 milioni di italiani che risiedono al Sud, spesso condannati solo dalla sola residenza a nascere, vivere, lavorare, diventare vecchi, senza godere dei diritti garantiti a ogni altro cittadino. È un vecchio problema, lo sappiamo.

 

In base ai dati ISTAT più recenti, l’offerta di servizi socio-assistenziali presenta enormi divari territoriali: si passa dai 22 euro pro-capite della Calabria ai 540 della Provincia Autonoma di Bolzano. La spesa sociale del Sud è molto più bassa che nel resto d’Italia: 58 euro annui pro-capite contro una media nazionale di 124 euro. Le Isole, trainate dalla Sardegna, toccano i 122 euro pro-capite, il Nord-ovest si attesta a 133, il Centro a 137 e il Nordest a 177.

Questo deve indignarci e non ci si può abituare. Sanare ciò è il compito su cui si misurerà l’attuale classe dirigente, dai vertici del Governo al sindaco del più piccolo dei comuni. La riduzione dei divari territoriali e il contrasto alla dispersione scolastica — abbandono precoce – sono obiettivi che ci chiede l’Europa e, entro il 2030, dobbiamo ridurla sotto la soglia del 9%. Un paese ancora tra i primi in Ue per incidenza dell’abbandono precoce e tra gli ultimi per quota di giovani laureati e con titoli di studio terziari.

 

Questi ritardi in molti casi hanno origine in divari territoriali profondi. Con disparità che iniziano dalla nascita, quando la possibilità di accedere ai servizi per l’infanzia, primo passo del percorso educativo, si scontra con un‘offerta ancora profondamente diseguale sul territorio. Con questi dati, aprendo le porte all‘autonomia differenziata, queste carenze le ampliato o le colpiamo?

 

Al di là della questione Nord/Sud che, pensiamo, nel caso della scuola, non rappresenti il problema principale su cui focalizzare il dissenso, riteniamo invece che la scuola rappresenti il luogo principale per la costruzione dell’eguaglianza sociale. Il mondo della conoscenza deve unire l’Italia e non dividerla. Il tutto per un Paese più unito, più eguale, più giusto, più coeso”.

 

Non è opportuno anche per il tempo a disposizione inoltrarci nei pareri di autorevoli costituzionalisti e nelle analisi a disposizione della Commissione di autorevoli studiosi che, anch’essi sotto vari aspetti di loro competenza, hanno evidenziato le criticità e in alcuni casi facendo esplicitamente riferimento ad “una disciplina confusa e contraddittoria non richiesta dalla Costituzione – e dunque non qualificabile come normativa costituzionalmente necessaria – che offre un quadro di regole ampliamente superflue, ma anche di dubbia legittimità”

 

Infine ci corre l’obbligo sottolineare i risvolti propri di forme di autonomia su cui abbiamo svolto studi approfonditi in riferimento non solo alla genesi storica di quei processi, ma soprattutto nell’analisi delle reali condizioni che si sono determinate. E’ il caso ad esempio della autonomia Trentina dove ai docenti viene chiesto di rendicontare, attraverso modulo drive gli interventi didattici svolti, le riunioni e gli incontri e relativi minuti impiegati, la scuola dell’infanzia ha visto spostare il termine delle attività didattiche dal 30 giugno al 31 luglio. Assessori che operano per rivedere la carriera dei docenti, attraverso un disegno di legge tanto velleitario quanto localistico. Di fatto rispolverando il disegno di Valentina Aprea, peraltro condito di pressappochismo.

In Trentino, anno dopo anno, si e cercato di asservire la Scuola alla Giunta provinciale di turno (al massimo alla maggioranza politica di turno). La Giunta stabilisce gli obiettivi strategici di legislatura per la scuola. Gli obiettivi vengono trasmessi ai Dirigenti scolastici, all’istituto Provinciale di Formazione e aggiornamento e al Comitato di valutazione provinciale.

In Trentino si è cercato di compiere un disegno storico, proprio di una voglia endemica del potere politico, di assoggettare la scuola alla maggioranza partitica di turno.

Piegando la libertà d’insegnamento, ponendo l’autonomia scolastica in “libertà vigilata”, la scuola muta geneticamente da pubblica a forme privatistiche.

Inoltre le decine di assemblee che abbiamo svolto in quella realtà territoriale hanno evidenziato, in modo inequivocabile che il personale della scuole vuole tornare al sistema di istruzione nazionale e non hanno avuto remore a sottoscrivere la raccolta di firme per il referendum costituzionale, di cui ci siamo resi protagonisti, con oltre 100.000 firme raccolte, per scongiurare un disegno che è evidente rischia di farci trovare in una  drammatica emergenza che decreterebbe non solo la frammentazione, la diseguaglianza dell’istruzione, ma la fine del sistema scolastico nazionale.


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