Motivazioni per la salvaguardia costituzionale della lingua italiana

Cari amici,

difendere la lingua italiana potrebbe sembrare inutile. A che serve difenderla? Già tutti gli italiani lo fanno, quando la parlano. E, poi, ogni lingua deve essere in grado di difendersi da sé.

Difendere la lingua italiana potrebbe sembrare impossibile. A che scopo tentare l’impossibile? Siamo inondati di forestierismi, e questo è anche un bene, perché una lingua si arricchisce anche con gli apporti stranieri, ed è andata sempre così.

Difendere la lingua italiana potrebbe sembrare fuori luogo. Ci sono istituzioni già preposte a difenderla, e perciò farlo sarebbe sostituirsi alle loro competenze.

Difendere la lingua italiana potrebbe sembrare un atto sciovinistico, perché sembrerebbe riproporre la vieta e pericolosa questione dei nazionalismi, che già tanto male hanno fatto al mondo.

Difendere la lingua italiana potrebbe sembrare un atteggiamento puristico, e perciò repressivo, perché una lingua si evolve anche grazie ai preziosi apporti che vengono dall’esterno.

Difendere la lingua italiana potrebbe sembrare atteggiamento chiuso e sospettoso, perché impedisce di aprirsi al mondo globale, che è ricco di tanti pensieri diversi e cresce per questo.

Difendere la lingua italiana potrebbe sembrare ornamentale, in questo momento in cui più gravi problemi devastano la vita del paese, come la pandemia, la crisi economica, il dissesto economico, la disoccupazione, la depressione (in tutti i sensi).

Eppure difendere – anzi salvaguardare – la lingua italiana non è atto inutile, né impossibile, né fuori luogo, né atto sciovinistico, né atteggiamento puristico, né atteggiamento chiuso e sospettoso, né problema ornamentale. Perché non si tratta di difendersi dalle parole straniere, ma dalla loro progressiva invadenza, che toglie respiro al nostro modo di pensare. La lingua non è un puro strumento veicolare. Non è il semplice atto con cui posso chiedere a un altro di darmi il pane o di porgermi il coltello, o di farmi sapere che ora è. La lingua è la propria maniera di sentire e concepire il mondo, ricco di sfumature interiori, col quale diamo il nostro personale contributo alla storia della civiltà.

Che lo faccia una Costituzione non significa imporlo per legge, ma dare un’indicazione di valore. La Carta costituzionale francese, per esempio, lo fa, e ciò si dica a prescindere dagli strumenti esecutivi che dà a questa indicazione.

Ogni volta che siamo investiti da questo fenomeno di invadenze, le apparenti comodità proposteci semplicemente ci deprivano della nostra capacità e ricchezza di pensare. Quante volte ci accorgiamo che, avendo dato posto a questa invadenza, non riusciamo più nemmeno a parlare, se non a pensare, in italiano. Sarebbe incredibile che nell’anno in cui celebriamo i 700 anni dalla morte di Dante non ce ne fossimo ancora accorti. Il giorno in cui non sapessimo più l’italiano, non potremmo leggere più Dante. Potrebbero solo leggerlo gli stranieri, per elogiarlo al nostro posto.

Ci si potrebbe dire: lasciamo che lo facciano gli altri, i cosiddetti “competenti”, o istituzionalmente competenti. Ma il problema è proprio questo. Non lasciare solo agli “altri” l’iniziativa. Si tratta di partire da noi. Partire dalle nostre responsabilità, ancor prima che dalle nostre competenze. Partire dal “basso” e non dall’“alto”, se per “basso” si intende non un insulto per qualcuno, ma l’insieme delle singole persone che noi siamo, senza apparati di gradi, semplicemente come persone appartenenti a una comunità civile.

Naturalmente, indicare la lingua italiana in costituzione non significa semplicemente indicare la lingua ufficiale della nazione. Sarebbe riduttivo e inutile.

Siamo arrivati al punto che nelle nostre Università – fin dai primi livelli di studio – sono non solo raccomandati, ma istituiti corsi da svolgere esclusivamente in lingua inglese! Potrebbe addirittura capitare che a un professore di Letteratura italiana sia chiesto di insegnare a studenti (solo) italiani contenuti didattici e scientifici in lingua inglese! Ciò significa espropriarci non solo della lingua, ma del nostro modo di sentire e concepire la realtà. La lingua non è solo un modo per mettere le etichette agli oggetti in una cristalleria. La cosa è oltremodo pericolosa, perfino devastante. Nulla da dire per eventuali corsi di affiancamento in lingua straniera, tutto da recriminare – invece – su corsi universitari che fin dai primi anni SOSTITUISCANO la lingua italiana. Questo non è anti-provincialismo, ma provincialismo dell’anti-provincialismo.

Nessuno riuscirà mai a spiegarci perché dovremmo dire location e non sede, fake news e non notizie false, breathing e non appuntamento, e così via. Nessuno riuscirà mai a spiegarci perché in molti testi giornalistici ogni dieci parole italiane, ce n’è una in inglese, per giunta inutile, se non fuorviante. Il fenomeno, però, non riguarda soltanto l’uso quotidiano che è pur sempre libero di esprimersi come vuole, ma le leggi e i decreti della Repubblica, che sono ormai zeppi di inutili termini stranieri.

La formulazione da inserire nella carta costituzionale, pur perfettibile, potrebbe essere questa: “La Repubblica salvaguarda e promuove la lingua italiana in tutte le forme possibili, come patrimonio della nazione e come suo contributo originale alla civiltà di tutti i popoli”.

Sta a noi far sentire la nostra opinione, la nostra forza e la nostra voce.

Giuseppe Limone


giuseppelimonepersona@gmail.comwww.giuseppelimone.it /www.rivistapersona.it

Condividi questo articolo: