L’emergenza virus apre le maglie ad una didattica virtuale improvvisata. Servono strategie serie.

Turi: lo smart working è smart fino a che non viene imposto.
Non c’è modernità senza insegnamento libero e viceversa

Vi piacerebbe che la Resistenza fosse raccontata da un software giapponese? Che il Rinascimento fosse spiegato con un e-book tedesco?

E’ un’ipotesi che si potrebbe realizzare e dovrebbe far pensare.  Dovremmo saper valutare con freddezza  – sottolinea Pino Turi, segretario generale Uil Scuola –  i risvolti educativi ed economici, dei progetti di innovazione nella scuola anche sulla base di quanto hanno realizzato gli altri paesi europei. Al momento, invece inseguiamo gli studenti a domicilio come fossero clienti da accontentare.

Non siamo quelli che mettono il gettone nell’iphone – rilancia Turi – e siamo convinti che l’innovazione sia parte del sistema scuola. Non c’è modernità senza insegnamento libero e viceversa.

Quello che non ci convince affatto è l’ottica modernista, che in piena emergenza, si sta imponendo nel sistema di istruzione. Nel metodo e nel merito.

Nel metodo perché le scuole sono centri di democrazia, comunità educante. Non c’è uno che si alza e dice a tutti facciamo così, in una sorta di fiera della vanità che questa emergenza sanitaria sta mettendo in evidenza, in ogni aspetto, sia politico che tecnico. Si progetta, si pianifica, si organizza e si realizza: facendo insieme, coinvolgendo l’intera comunità scolastica.

Nel merito perché lo smart working è smart fino a che non viene imposto.
Poi è altro. E andrebbe comunque regolato.

Perché gli studenti non sono teste da riempire, sono persone da far pensare. Quello che in emergenza sembra un vantaggio rischia di trasformarsi in uno strumento che appiattisce, standardizza, isola piuttosto che aggregare, non gestisce  le dinamiche di gruppo, non coordina i comportamenti.

Ultimo, ma non ultimo, perché ci sono interessi economici fortissimi: la denuncia dei paesi europei che hanno già fatto esperienza in questo senso è da prendere in considerazione.
Ai grandi produttori di reti, hardware fanno capo anche i software,  programmi.  Un trade-off che impone alla didattica le regole del mercato. Vuoi la Lim? Te la regalo se compri, usi il programma, i pacchetti preparati.

Ciò che non è stato realizzato in anni di maggiore disponibilità – commenta Turi, quando alla scuola sono stati invece imposti tagli in termini di risorse e di personale – si cerca di metterlo in partica ora, in emergenza. Siamo alla vanità all’esperimento volenteroso. Ad una sorta di fai da te che potrebbe nascondere brutte sorprese.

La scuola ha bisogno di scuole sicure, insegnanti bravi e ben pagati, studenti che apprendano in modo ampio e critico, e anche di nuove tecnologie. La richiesta di maggiori risorse per la scuola è naufragata a dicembre scorso. Oggi un virus mondiale mette alla prova la professionalità dei docenti e la tenuta della scuola tutta.
Qualche computer in più non ne cambierà la funzione, né può mettere sotto il tappeto la polvere della mancanza di risorse. Si può con questa campagna mediatica di rincorsa al digitale, riportare ciò che dovrebbe essere la scuola?

La scuola è sede di democrazia partecipata, insegna le regole del vivere in comune e spiega come utilizzare la tecnologia, non ad essere utilizzata.
I social e il loro utilizzo ci hanno abituato a realtà virtuali che stanno cambiando i rapporti sociali.
Quelle relazioni che la scuola e l’istruzione dovrebbero, invece, riportare alla vita reale.

Non si deve reagire in modo acritico di fronte a modelli indotti da chi detiene i mezzi di informazione. Ugualmente non si deve vivere l’inganno di un salto di qualità impossessandosi dei mezzi di formazione.  E’ un pericolo che non è il caso di correre con iniziative estemporanee, approssimative, indotte dall’emergenza e che non rispettano alcuna regola.

 


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