Dalla scuola italiana in Iran alla fuga. La testimonianza della docente Angelina Spenillo

“In cattedra, tra cento culture, ho insegnato in una scuola del Mondo. Così l’Italia mi ha riportata a casa”.

È arrivata in Italia da qualche ora, con negli occhi ancora la polvere della fuga e nel cuore la voce dei suoi studenti rimasti a Teheran. Angelina Spenillo, docente di Montesano sulla Marcellana, insegnava italiano, storia e geografia alla primaria nella scuola paritaria “Pietro Della Valle” di Farmanieh, un presidio culturale italiano nel cuore dell’Iran, noto per la sua apertura al territorio, le attività artistiche, la qualità dell’insegnamento. Una scuola viva, aperta al territorio, alle famiglie, alla cultura. Un presidio educativo.
In fuga dall’Iran a causa dell’inasprirsi del conflitto con Israele, insieme ad altri 29 italiani, Angelina porta con sé un’esperienza umana e professionale che intreccia identità, istruzione e dialogo tra popoli. Oggi, da poche ore in salvo, ha accettato di raccontarci la sua storia.

Ieri pomeriggio a Roma, nella sede nazionale della UIL Scuola Rua, il Segretario generale Giuseppe D’Aprile e il responsabile della UIL Scuola Esteri Angelo Luongo hanno incontrato Angelina Spenillo

Angelina, come si sente oggi?
“Mi sento combattuta. Una parte di me è sollevata, l’altra è rimasta lì. Avevo legato con tante persone, non solo colleghi, anche iraniani. Al momento della partenza, quando ho visto la console salutarci, mi si è spezzato qualcosa. Mi ha abbracciata e mi ha detto: ‘Io devo restare’. Ecco, io mi sono aggrappata a lei, e ora quella persona è ancora lì. Le ho riversato tutte le mie paure, l’ho vista come un punto fermo. E’ difficile dimenticare quei momenti.”

Può raccontarci com’è avvenuta l’uscita dal territorio iraniano?
“Siamo partiti da Teheran alle sette del mattino. Alle sei e mezza avevano già iniziato a bombardare. Avevamo appuntamento sotto la residenza dell’ambasciatrice. Il viaggio è stato via terra, verso Baku, in Azerbaigian. Eravamo su dei pulmini, scortati dalle forze armate italiane. Siamo arrivati al confine nel tardo pomeriggio e lì abbiamo dovuto aspettare altre cinque o sei ore. Il controllo dei visti è stato molto lungo. Prima di arrivare a Baku ci hanno fermato ancora, per ulteriori controlli, ma alla fine ci hanno lasciati passare.”

C’è stato un momento preciso in cui ha capito che era il momento di andare via?
“In realtà, ho cercato di evitarlo il più possibile. Abitavo vicino alla scuola e all’ambasciata, nella mia zona c’è stato il primo attacco. Sentivamo forti rumori, pensavamo fossero tuoni: lì i temporali sono violenti, li avevamo scambiati per quelli. Nel frattempo, era saltata la connessione internet ed eravamo isolati dal mondo. Solo dopo, con l’arrivo dei messaggi, abbiamo capito che si trattava di bombardamenti. La cosa più dura è stata vedere le persone colpite emotivamente: colleghi che lasciavano i genitori, figli che piangevano. Sono un’insegnante, sto con i più piccoli, e questo mi ha ferita profondamente.”

Com’è riuscita a gestire le sue preoccupazioni?
“È stato difficile anche non far trasparire la tensione ai miei figli che mi aspettavano in Italia. Cercavo di proteggere loro, mentre io cercavo di proteggermi raccontando, parlando e scambiando informazioni con chi avevo vicino. Vorrei aggiungere che al di là della situazione di tensione degli ultimi giorni, avrei voluto che i miei figli vedessero quei luoghi. Ho trovato un posto bellissimo e vissuto un’esperienza bellissima a scuola.

Che cosa rappresentava per lei la scuola “Pietro Della Valle”?
“Sta toccando un tasto che mi emoziona. Era, anzi è, una realtà meravigliosa. Io insegnavo italiano, storia e geografia alla primaria. Sono arrivata in Iran ad aprile, con un mandato fino al 2030. Ma più che una scuola italiana, io la chiamavo una scuola del mondo. C’erano bambini da ogni angolo del pianeta: figli di diplomatici, ambasciatori, imprenditori. Era uno scambio culturale continuo, gioioso, sano. Giocavano tutti insieme, senza differenze. E poi c’era un momento magico: l’inno italiano cantato da bambini di tutto il mondo. Ti viene la pelle d’oca. Era un’emozione quotidiana. E il metodo italiano, sa? È stimato ovunque. Le famiglie erano orgogliose di mandare i figli lì.”

Che rapporto aveva con i suoi alunni?
“Bellissimo. L’unica difficoltà era imparare i loro nomi! Alcuni erano davvero complicati da pronunciare, venendo da ogni parte del mondo. E quando sbagliavo, loro mi prendevano in giro, bonariamente. Io rispondevo: ‘L’ho detto all’italiana, mi dovete perdonare’ (ride). La verità è che gli studenti italiani erano pochissimi. Purtroppo non sono riuscita a rimanere in contatto con loro: a causa dei disservizi internet, non si riesce a scrivere o ricevere messaggi. Vorrei solo dirgli che i tempi di pace torneranno. E che impareremo ad apprezzare di più la tranquillità. Ma è difficile scrivere a chi è rimasto. È come chiedere a una persona con un tumore: ‘Come stai?’. Non ci sono parole.”

È riuscita a mantenere i contatti con i colleghi?
“Sì, soprattutto con gli italiani. Il Ministero degli Esteri, i funzionari del Maeci, gli ambasciatori: ci sono stati vicini, ci hanno seguiti, sostenuti. Questo ci tengo a dirlo: non siamo stati lasciati soli.”

Pentita della scelta di andare in Iran?
“Mai. Non ho mai avuto dubbi. Ho sempre rispettato le usanze locali. Le differenze mi hanno arricchita. Mi sono immersa nella cultura del posto. Gli iraniani sono persone straordinarie. Non sono una persona chiusa, non ho pregiudizi. E chi li ha, dovrebbe restare a casa sua: non ha capito niente del mondo.”

Ha chiesto aiuto anche ai suoi riferimenti in Italia?
“Sì, ho contattato anche Angelo Luongo, il responsabile della Uil Scuola Esteri che voglio ringraziare. È stato importante sentirmi ascoltata, anche da chi era lontano.”

Cosa si porta via da tutto questo?
“Quello che abbiamo costruito in aula come scuola italiana – il rispetto tra culture, le relazioni – non si spegne con un’esplosione. Rimane. Ed è questo che conta.

 

 


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